Tre storie di cani a lieto fine
Bambi
Bambi nella discarica dove è stato abbandonato. |
Evocativo di una fiaba per
l’infanzia il nome Bambi. Di un cartone che ha tenuto con il fiato sospeso
milioni di persone, Bambi, il cerbiatto
in fuga da un bosco divenuto preda di fiamme indomabili. Bambi il cerbiatto. Bambi,
icona dell’innocenza,
rappresentazione magistrale della
fragilità delle creature e della attrazione terrifica che questa vulnerabilità
esercita su un “ fato avverso”.
Personificato da eventi ostili. Più frequentemente da orchi in sembianze
umane.
L'innocenza deve essere
profanata, la fragilità distrutta.
L'infanzia, di qualsiasi creatura, violata.
L'infanzia, di qualsiasi creatura, violata.
Il Bambi di cui desidero raccontare
brevemente la storia riaffiora da strati temporali nei quali si è sedimentata
la crudeltà insana della specie umana,
unica tra le specie a praticarla con talento, anzi ad indulgervi senza
remora alcuna, senza compassione, senza
empatia.
Il nostro Bambi è un cucciolo di
cane. Uno degli innumerevoli “cuccioli“ che vengono al mondo con dolore,
nel dolore, per il dolore. Bambi è l’
emblema della sofferenza cui vengono sottoposti tutti gli animali , o buona
parte di essi, nel contesto umano, e delle sue torture, più o meno salienti, più o meno efferate, più o meno manifeste.
Bambi è nato a Licata, anch’essa una località emblematica,
rappresentativa di quanto un bel paesino per umani possa essere un inferno per
animali. Parliamo di cani e gatti. Animali da compagnia, trastulli,
balocchi, cose, mercificate da una parte
e senza valore dall’altra. Licata è il
mondo. E i suoi abitanti, buoni o cattivi o indifferenti, sono abitanti di
questo pianeta.
La Terra dovrebbe essere spopolata.
Ma torniamo a Bambi.
Di lui non sappiamo altro che una
volta svezzato è stato strappato alla mamma e buttato in una discarica. Li ce
n’è parecchie, al limite del visibile,
dove l’indecenza si può confondere con una temporanea trascuratezza, al
confine, oltre il quale c’e l’umano. Anche prima c’è l’umano ma è
camuffato, mascherato, la discarica è
l’apoteosi a cielo aperto della nostra vergogna. Ma non ci appartiene. E’
sempre altrui.
La galleria di foto di Bambi
racconta bene la sua storia in un divenire fortunato. Non è mia intenzione riproporla in altro modo
che non sia un semplice compendio
A Bambi è andata bene.
Il putto, l’angioletto dalle orecchie dorate e
svolazzanti, dagli occhi imploranti
rivolti a una entità onnipotente, pieni di speranza e devozione, il piccolo essere gettato tra i rifiuti e
scoperto dai fari di una automobile, guidata da una brava persona è diventato
un bel maschiotto, quasi irriconoscibile.
Emana felicità, gratitudine, gioia di vivere che si percepiscono
anche solo nell’osservare le foto che
lo ritraggono, ignaro.
A Bambi è andata bene. A tanti
altri compagni di vita è andata bene. Ma essi rappresentano la cima di un ice-berg la cui grande parte è nascosta
alla vista. Sotto la superficie,
occultata dall’incuria, dallo sfruttamento, dall’ indifferenza, dalla
stupidità più feroce, una massa enorme di sofferenza. Incurabile. Inguaribile.
Devastante.
La Terra dovrebbe essere spopolata.
Bambi in sicurezza. |
Bambi, dopo essere stato accolto al rifugio di Anima Libera, nella nuova casa. |
Sibra
Mi presento: sono Attila, e sono un
piccolo barboncino nero nero, anche i miei occhi sono neri, e il mio pelo è riccioluto,
folto e selvaggio. Non che io abbia molto di selvaggio…
Vivo con una famiglia in un piccolo
paese, e la mia vita si divide tra corse nel giardino, lunghe e profonde
dormite, furti di ciabatte e piatti succulenti, preparati apposta per me. Le
persone che mi hanno accolto, sapete, mi amano davvero molto…
Ma non è di me che voglio parlarvi. La
storia che vi offro è quella di Sibra, la mia amica viaggiatrice. Essa ha origine
in una terra calda, selvaggia, antica: la Sardegna. Questo magico luogo ogni
anno attira sul proprio terreno numeri esorbitanti di umani, uomini, donne e
bambini in cerca di divertimento, bellezza e pace; tuttavia, a pochi è dato di
conoscere la Verità: essa sfugge, tremante, occultando se stessa dietro a immagini
di ingannevole innocenza.
Sibra è una cagna, e in quanto cagna, o
animale, o, insomma, semplicemente in quanto “non umano”, la sua esistenza è
stata contrassegnata dal principio, ancor prima di vedere il mondo che
l’attendeva. Compagna di vita di un cacciatore, nacque per essere utilizzata da
quest’ultimo nelle sue attività “di svago” o, per meglio dire, “sportive”.
Utilizzata.
Io sono un cane, tuttavia, non riesco a
non stupirmi ogni qual volta mi si pone dinanzi la facilità d’uso di tale
termine nei confronti dei miei simili. In esso è individuabile l’origine del
male.
La nostra mutazione in materia spenta. Putrefatta.
Ricordo ancora i miei primi mesi: i
primi passi, il corpo caldo della madre, i giochi con i fratellini. Il nostro
rapporto ha avuto durata breve, in quanto, poco dopo, ho conosciuto la mia
nuova famiglia: una nuova madre, un nuovo padre, nuovi fratelli; anche se,
questa volta, umani.
Eppure, ho potuto ritrovare lo stesso tepore
emanato dalle mie origini.
Sibra, invece, visse il suo primo anno
di vita in un modo diverso dal mio.
Alla reclusione in luoghi angusti e
spenti, vividi di morte, si accompagnava il suo luttuoso compito: inseguire i
propri simili, catturarli e, infine, ucciderli. In caso di successo, l’uomo l’avrebbe
ricompensata con qualche fredda carezza, e del cibo; al contrario, se la
ricerca non avesse portato a nessuna conquista, quell’esigua quantità di
affetto si sarebbe tramutata, senza pietà, in ira.
Una furia brutale, diavolesca, si
sarebbe incarnata nelle mani di quell’essere, tale da poterla vedere
diffondersi nell’aria che circondava i due.
L’apparenza, e
le sue retrovie.
Fortunatamente, la storia di Sibra ha
finale lieto.
Un giorno, un uomo e una donna la
trovarono smarrita, errante nella campagna sarda: appena la videro, decisero di
tenerla con sé. Fu così che arrivò qui con me, e che conobbi le vicende della
sua vita. Ora l’ambiente è diverso da quello in cui nacque, con meno caldo e
meno natura, ma tanto affetto ad accoglierla.
È passato qualche mese dal momento in
cui Sibra giunse alle soglie della Fine.. Una malattia mise a repentaglio la
sua vita, ma il tutto, ad oggi, è superato: ora sta bene e, per i suoi 11 anni,
devo dire che li porta bene. Sibra sprigiona un’insolita eleganza canina,
tipica di quelle anime che, pellegrine, hanno vissuto molto.
Gli occhi di Sibra sono mare, campagna, monte.
Il suo corpo è sabbia cocente, umido
terriccio di bosco.
Sibra è caldo vento estivo e brina d’inverno.
È goccia speranzosa in un oceano
di verità distruttive, è rappresentazione della sfida del vivere.
Sibra è nascita, morte, rinascita.
È vita ritrovata.
Rinnovata.
P.S.: Dimenticavo… “Sibra”, nel dialetto
di questo posto, significa “ciabatta”. Il motivo? Umani… e la loro bizzarria.
Attila
Sibra e Attila. |
Una storia binaria: KOKORO
Kokoro incontra la sua mamma. |
Il suo nome in giapponese significa Anima, Luce. A ritroso e con brevità intenzionale racconto la sua storia, ora che, con un sospiro di sollievo, ne abbiamo vissuto “il lieto fine”. Binaria perché simile alla storia di Bambi, anch’essa allietata da un esito felice.
Quando ne venimmo a conoscenza era
iniziata da pochissimo l’esistenza di Kokoro. Dal ventre della sua mamma, di cui nulla si sa, era stata scagliata letteralmente tra le pattumiere in una zona di Licata. Probabilmente
da un’auto in corsa, date le gravissime
lesioni interne riscontrate.
L’intervento subìto è stato complesso ed è riuscito bene. La piccola Kokoro si è ripresa in fretta. La professionalità del chirurgo veterinario, le cure di madrine di Licata, la sua voglia di vivere e la sua giovane età sono stati elementi che hanno vinto il “male”. Ma gli occhi e lo sguardo con cui si rivolge al “mondo” sono seri, quasi severi, limpidi e fermi nella loro pensosità.
La strategia di Bambi è l’implorazione, la strategia di Kokoro la fierezza. Le accomuna una intelligenza innocente che non può fare altro che commuovere.
Approdata a Bergamo, Kokoro, ha trovato una mamma putativa , Anica, che la adora, ricambiata con passione sfrenata. Avrebbe dovuto essere una cagnolina di taglia medio piccola ma con stupore di tutti si è trasformata in una gigantessa di ben 25 chili, che Anica, forzuta anche se minuta, riesce a tenere in braccio. Che altro dire? Ne vorremmo raccontare ed ascoltare di più di queste cronache piene di tenerezza e bontà ma chiudere gli occhi di fronte a un mondo sommerso le cui vibrazioni piene di dolore toccano le radici della nostra anima non è possibile, non è pensabile, non è etico.
Grazie Anica che hai lenito il dolore. Grazie alle amiche che hanno permesso che questa fine felice abbia potuto avvenire.
Grazie Kokoro, grazie Bambi, grazie a tutte le creature che ci consentono di essere migliori… o consentirebbero….la risposta è nostra e di nessun altro.
Lo strazio per il “mondo sommerso” perdura , alimentato, cullato, nutrito dalla cieca indifferenza di tutti coloro che fanno “male” e di coloro che si girano dall’altra parte.
Dopo qualche mese di convivenza, ecco Kokoro e la sua mamma. |
Tre storie di cani a lieto fine diTiziana Antico, Sara Pievani è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
Una compagnia indivisibile retta da un essere che fatico denominare animale. Amore senza barriere o preconcetti. Semplicemente meraviglioso.
RispondiEliminaVorrei che tutte le storie,analoghe a queste, fossero a lieto fine, vorrei poter sperare...
RispondiEliminaCome vorrei che tutte le storie di animali abbandonati e maltrattati avessero un destino simile al loro......
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